La figlia ripercorre episodi della intensa e straordinaria vita del pittore Ruberti
Non penso a mio padre Francesco con tristezza: perché aveva uno spiccato senso dell’umorismo e perché ha avuto una vita densa di avventure, di rischi e di fortuna. Ricordo, quando eravamo tutti a tavola, che ci raccontava aneddoti su certi personaggi della mantovanità e noi ridevamo come matti. Da ragazzo possedeva una Harley Davidson. Si tappava da centauro con brache negli stivali di cuoio e con quello che adesso chiamano “il chiodo”. Quando andava sull’Anconetta a trovare la morosa (mia madre), la gente reclamava per l’assordante rumore che la moto faceva. Lui amava essere un uomo libero: odiava le prepotenze e i soprusi che infrangevano proprio quel desiderio di libertà.
Tant’è che nel 1937 entra a far parte dei primi gruppi antifascisti, fra le cui file spiccavano nomi quali Montanari, Bacchi, Dallamano, Felice Barbano, Don Mazzolari, il conte Manci, partecipando ad azioni in aiuto ai dissidenti dell’Alto Adige. Fu in questo tormentato periodo per la nostra famiglia, che una notte sentimmo battere violentemente alla porta di casa in via Vittorino da Feltre. Mia madre, velocissima, mi prese e mi mise nel letto al posto di papà: poi bruciò tutte le sue poesie allo scopo di cancellare ogni possibile traccia. Entrò uno squadrone di camicie nere, tutti ubriachi, che iniziarono a sparare ovunque, anche nel giardino dove mio padre aveva allestito un misero rifugio di fortuna.
Nel frattempo lui riuscì a scappare scavalcando tutti i muretti degli orti dei vicini, arrivando alla villa del suo amico Learco Guerra. Questa volta l’aveva fatta franca.
Di aneddoti del tempo della guerra ne avrei a centinaia, come quando dimenticò sul treno per Verona il borsone che conteneva libri ma anche materiale “scottante” riguardante la Resistenza. Caso volle che il borsone venisse ritrovato e consegnato agli uffici della Gestapo: ma, anche lì la fortuna non lo abbandonò, poiché nessuno si curò di aprirlo, e glielo riconsegnarono. Non oso pensare cosa gli potesse essere passato per la mente in quelle ore di angoscia.
Una sera, caricò me, le mie sorelle e mia madre su un carrettino trainato dalla bicicletta: doveva portarci a Bozzolo da una zia che ci poteva ospitare e perché là il gruppo dei partigiani mantovani si incontrava con don Primo Mazzolari. Durante il tragitto scoppiò un temporale che ci ribaltò insieme al carrettino.
Innumerevoli sono le azioni a cui partecipò facendo chilometri e chilometri a piedi o in bicicletta, correndo grossi rischi, per raggiungere le postazioni assegnategli.
La fine della guerra fu festeggiata con abbondanti piatti di “fojade”, le stesse che un giorno, durante il conflitto, lui con l’amico Felice(Barbano), nascosti in un fosso, speravano di poter assaporare un giorno.
I mesi che seguirono furono di grande confusione per tutti. Mio padre entrò a far parte del Tribunale della Libertà. Tanti venivano a bussare alla nostra porta offrendogli prelibatezze in cambio di qualche favore: ma lui, incorruttibile gli faceva fare veloci dietrofront.
Anche dopo la guerra non smise mai di andare in bici. La domenica si vestiva come i veri ciclisti e, con un gruppo di amatori faceva numerosi chilometri per le colline mantovane.
Un giorno venne a casa avvilito perché un giovane gli aveva gridato “sta a casa vecio” alludendo ai suoi capelli bianchi: Francesco, orgoglioso, fece una volata e superò tutti.
La sua squadra era la “Rhoss” di cui era pure presidente. Fu amico di tutti i ciclisti mantovani e non, tanto vero che il suo “omonimo” amico Moser, gli regalò una delle sue biciclette.
Amici di allora mi avevano raccontano che un inverno di tanti anni fa, andando a Livorno per un convegno nazionale sul ciclismo amatoriale, la loro auto rimase per alcune ore bloccata sull’autostrada causa una fitta nevicata. Grande fu il disagio, ma mio padre, riuscì a sdrammatizzare la situazione raccontando alcune vicende semicomiche capitategli molto tempo prima.
Giunti finalmente al convegno, dopo qualche ora, poiché si parlava solo di politica e non di sport, con qualche rimostranza, si alzò e se ne andò, seguito “a ruota” da altri congressisti. Insieme andarono a vedere il porto di Livorno, quello che ispirò le tele di Fattori, Severini ed altri artisti della scuola livornese.
Ed ecco la vera, grande passione del papà. Cominciò a dipingere per hobby nei primi anni 30. Fu uno zio venuto da Roma che, vedendo alcune sue opere, lo incentivò a continuare. Iniziò così la sua vera vita da pittore che terminò solo alcuni giorni prima di morire.
Partecipò a svariate mostre collettive e personali, vincendo numerosi premi di rilevanza nazionale, Tuttavia, quel che più conta, si guadagnò il plauso della critica e degli intenditori.
A Roma, Francesco divideva lo studio con lo scultore Mazzacurati e altri pittori di valore tra cui un giovane Guttuso, appena arrivato dalla Sicilia senza soldi in tasca. Mio padre e gli altri amici artisti lo aiutarono materialmente avendo intuito quel grande talento. Anche Ottone Rosai divideva lo studio. Ricordo che quando questi gli propose uno scambio di quadri, mio padre si rifiutò perché non si riteneva degno di un simile onore.
Quando il “Mazza” (così lo chiamava veniva a Mantova a prenderlo con una spider rossa (all’epoca rara), vedevo la gente che sbirciava curiosa dalle finestre. Andavano insieme nella Bassa dove avevano scoperto uno strano personaggio che dipingeva “nimali” e dormiva in piedi avvolto nella canne palustri. Gli portavano tubetti di colore, tavolette di masonite si cui dipingere: era Ligabue!
Tanti erano gli amici che venivano a trovarci a casa. Il più vicino era Ernesto Treccani. Il conte Nuvoletti? Quasi un fratello fin da quando erano ragazzi, al punto che gli confidava dei suoi attriti con l’Avvocato che lo considerava un arrampicatore.
Con Maria Bellonci fu uno dei promotori del premio Strega, e più volte fu invitato a Villa Giulia come votante (mai una volta che mi avesse portato con lui…).
Ricordo come fosse ieri Renato Guttuso che uscendo da casa nostra pagò il taxi con un portafoglio “da svenimento” tanto era gonfio di banconote.
Non dimentico neppure Raffaele De Grada, Tono Zancanaro e le sue patacche sulla maglia, Cesare Zavattini e altri non meno famosi di cui non rammento i nomi.
A una mostra personale tenuta a Mantova, mio padre ebbe l’onore della visita di Pasolini, con cui colloquiò a lungo in galleria: e il dialogo proseguì a cena.
La passione per il cinema non lo abbandonò mai: con il supporto di Gianni di Venanzo (direttore della fotografia che poi lavorerà con Michelangelo Antonioni), girò un documentario sui Martiri di Belfiore, che fu abbinato al film “Acthung Banditi”.
Uno degli ultimi personaggi che venne da noi fu il candidato al Premio Nobel per la Letteratura Irving, accompagnato da un caro amico pittore di Roma. Irving si innamorò della nostra casa e voleva comprarla: mio padre, anche se gli avesse offerto chissà quanti milioni, non avrebbe mai lasciato il suo angolo di pace. Ed è per questo, per la pace e il silenzio che non amò rincorrere notorietà e soldi.
Questo era mio padre: giusto, coraggioso e onesto. Una persona importante nella mia vita.
I suoi quadri emanano una luce quasi nebbiosa, proprio come quella della sua amata Mantova, con gli sconfinati orizzonti e le tenue tinte che, al tramonto, rendono unico e meraviglioso lo stupendo profilo.
Per tutti questi motivi uniti alla sua spiccata sensibilità, che consacrò la vita alla pittura e agli ideali di libertà, difficili oggi da trovare.
Chiudo questo umile omaggio a mio padre con due ricordi della mia infanzia.
Il primo quando, in canna sulla bici, mi portava in campagna a dipingere. Io, con la mia cassettina di colori e qualche tavoletta di legno imparai i primi rudimenti di pittura. Ci fermavamo solo quando lui notava un “taj” degno di essere dipinto.
Un altro episodio – del quale mi pento – quando, in partenza per la colonia, lui rincorse la corriera per darmi un ultimo saluto: però io, dura come un palo e con il magone, non mi girai.
Forse a qualcuno altro, meno degno di riconoscimento, sono già state intitolate una via, una piazza, un edificio in città. Perché nessuno ha pensato a Francesco Ruberti? Come mai?
Franca Ruberti