Letteratura strumento utile e ideale
Chiude con successo la ventisettesima edizione di Festivaletteratura. Un’edizione da record, come suggeriscono alcuni numeri: oltre 320 incontri, 350 autori italiani e internazionali, 65 mila presenze totali (tra incontri gratuiti e a pagamento). Il dato delle presenze fa registrare un aumento del 16% rispetto allo scorso anno.
Tutto ciò suggerisce come la manifestazione continui ad essere un appuntamento imperdibile per mantovani e non solo. I segreti di questo successo? Si legge nel comunicato stampa di chiusura: “Negli ultimi anni, Festivaletteratura ha raddoppiato gli sforzi per sperimentare nuove forme di interazione e partecipazione del pubblico, diventando un laboratorio di ricerca e di produzione culturale
Ecco, forse uno dei segreti è la capacità di mantenersi al passo con i tempi, rivolgendosi soprattutto ai giovani e sperimentando nuove proposte.
Esperienze
Per esempio, quest’anno il programma ha previsto nuove esperienze, come l’escape room Ludmilla (dedicata alla scrittura di Calvino), il progetto Ekphrasis (in cui nove poeti si sono confrontati con gli affreschi di Giulio Romano e con le opere di Street Art di Lunetta) e gli incontri di Words Match (dibattiti tra lettori under 20 intorno ad alcune parole d’attualità).
Un’edizione, dunque, all’insegna del rinnovamento. Lo dimostra anche il fatto che sia stata raccontata sui social, attraverso un diario delle cinque giornate che ha raggiunto oltre un milione e mezzo di visualizzazioni.
Rinnovamento, ma anche trasversalità. Infatti, per raggiungere un pubblico numeroso, si è cercato di affrontare un ampio ventaglio di temi, connessi a vari mondi.
Cinema
Uno di questi è quello del cinema, capace di raccontare un’epoca tanto quanto un libro. È il caso di due grandi registi italiani, che nell’estate di sessant’anni fa tracciarono un affresco dell’Italia di allora, seppur da due prospettive diverse. Da una parte, Luchino Visconti con Il Gattopardo; dall’altra, Federico Fellini con Otto e mezzo. In uno degli incontri del Festival, lo sceneggiatore Francesco Piccolo ha presentato il suo libro “La bella confusione”, dedicato proprio alla genesi di questi due capolavori.
Dialogando con il regista Mario Martone, Piccolo ha svelato alcuni aneddoti riguardo a quell’estate in cui vennero girati, in contemporanea, i due film. Si scopre, così, che entrambe le pellicole sono nate un po’ per caso. Fellini, dopo il successo de La dolce vita, era a corto di idee. Perciò, girò un film che metteva in scena un regista alla ricerca di una storia da raccontare. Questo fa di Otto e mezzo il suo film più autobiografico, oltre che uno dei più famosi.
Dietro al Gattopardo c’è una vicenda ancor più suggestiva. Il romanzo venne pubblicato per casualità, dopo essere stato scartato da molti editori. Infatti, il manoscritto originale di Tomasi di Lampedusa fu ritrovato da una domestica, che lo fece avere a Giorgio Bassani. Dopo varie peripezie, il libro finì nelle mani di Visconti, che ne volle fare un film. La produzione gli impose come attore protagonista Burt Lancaster, nome che Visconti non apprezzò, definendolo un “cow-boy”. Eppure, quel cow-boy interpretò il principe di Salina in modo magistrale e Il Gattopardo si rivelò un successo al botteghino.
“Si tratta – ricorda Piccolo – di due capolavori creati nel momento in cui i due maestri si sono spogliati delle impalcature politiche che avevano alle spalle. Entrambi i registi hanno gettato la maschera, ritrovando loro stessi”.
Maschera
Gettare la maschera. È quello che ha fatto anche Mauro Corona, alpinista, scrittore e – negli ultimi tempi – personaggio televisivo. Ma lui ama definirsi un uomo di montagna, a cui la verticalità delle Alpi ha dato, ma anche tolto. Gli ha offerto paesaggi, suoni, sapori magici, che hanno ispirato i suoi libri. Gli ha, però, sottratto molti amici, soprattutto nella tragica notte del 9 ottobre 1963, quella della strage del Vajont.
Corona, ospite del Festival a Palazzo San Sebastiano, ha ricordato quei momenti. “Sono nato ad Erto, un paese che si trova vicino alla diga del Vajont. Nel 1963 avevo tredici anni, vivevo in povertà ma ero felice, perché pensavo che non esistesse un altro stile di vita diverso dal nostro. Poi, nel giro di mezzo minuto, la nostra cultura e molti nostri compaesani vennero spazzati via, dalla forza distruttiva dell’acqua e del fango. Duemila morti, paesi rasi al suolo, un disastro che grida ancora vendetta”.
Il Vajont è un pezzo di storia italiana che non deve essere dimenticato, come ricorda quella diga che, ancora oggi, si staglia sulla valle con tutta la sua mostruosità. Ma l’infanzia di Mauro Corona è stata attraversata anche da altri drammi, come l’abbandono della madre e i maltrattamenti del padre. Nel libro Le altalene, lo scrittore raggiunge la pace con se stesso che ha cercato per anni.
“In questo romanzo ho messo la mia anima, finalmente ho detto chi sono. Ho voluto scrivere questo testamento letterario per non rischiare di morire frainteso. Qui c’è tutta la mia sofferenza, ci sono le mie contraddizioni. Non è un’autobiografia (sarebbe presuntuoso da parte mia), bensì un romanzo ispirato alla mia vita”. E quando Alberto Rollo, critico letterario e amico di lunga data, gli fa notare quanta strada abbia fatto, Corona risponde con la sua saggezza popolare: “Non ho fatto strada, ho fatto sentieri ripidi”.
Umanità
Strade e sentieri possono diventare metafore della vita, come afferma l’etica del viandante. Il viandante è colui che non ha mete da raggiungere, si limita a camminare e sperimentare. Fa esperienza delle diversità, capisce che la Terra non è al centro dell’universo e sa che solo qui è possibile la vita. Questo pensiero è uno dei capisaldi della filosofia di Umberto Galimberti, che ha tenuto una conferenza tutta d’un fiato davanti al pubblico di piazza Castello.
Tesi principale del relatore è che l’umanità sia entrata, da tempo, nell’età della tecnica. Ciò significa che siamo tutti funzionari con delle mansioni specifiche da svolgere. Il nostro lavoro viene valutato in base ai risultati: non importa ciò che fai, ma come lo fai. Inoltre, per Galimberti, oggi non si distingue più il bene dal male, perché conta solo l’efficienza.
Questa etica ha avuto inizio con il Nazismo, che ha imposto ai suoi uomini di compiere le azioni più crude nel modo più rapido ed efficace. Da quel momento, il trionfo della fisica nucleare e delle tecnologie hanno solo peggiorato questa tendenza. Il filosofo, dunque, non nasconde il proprio pessimismo di fronte alle sfide del presente: “Per limitare i danni dei cambiamenti climatici, non basta porre una misura alla tecnica. Dobbiamo cambiare paradigma e passare dalla cultura antropocentrica a quella del limite, che apparteneva agli antichi greci”. Pertanto, l’attenzione deve essere rivolta non solo all’umanità, ma anche alla natura, perché “la natura c’era prima dell’uomo e resisterà all’uomo”. La domanda sorge allora spontanea: riusciremo a cambiare mentalità prima che sia troppo tardi? Galimberti conclude, dubbioso: “L’uomo è in grado di evolversi culturalmente. Il problema è capire se riuscirà a farlo in tempo, prima della fine del mondo”.
Idee
Letteratura, cinema, storia, filosofia: Festivaletteratura dovrebbe chiamarsi “festival delle idee”, perché spazia da un orizzonte all’altro, stimolando vari interessi. È una fabbrica di pensieri, di libri e (occorre ricordarlo) di soldi per Mantova, che per cinque giorni all’anno si riscopre capitale della cultura. Certo, non è una macchina perfetta. Si può discutere sulla esigua presenza di autori mantovani invitati, oppure sull’eccesso di retorica politica in alcuni eventi. Pur tuttavia, il Festival segue la regola che vale per tutte le manifestazioni: finché se ne parla (nel bene o nel male) vuol dire che è un successo.
E tutto questo non può che far bene a Mantova.
Francesco Raffanini